E’ arrivato tutto insieme, sulla cresta dell’onda delle tue
ciglia.
Un colpo forte dentro la gola, un altro al centro del cuore.
E le rotonde e i lampioni e i fiori e le fotografie.
Andiamo avanti da soli a costruire o a non costruire niente,
in questo docile presente unto di cose nostre, di medicine dolci e graffi al
cielo.
Noi due come chiunque poteva essere dei mille.
Noi due come due farfalle di campo che si spruzzano di
polvere magica, che volteggiano forti delle loro ali e debolissime di una sola
goccia di rugiada amara.
Io, amore mio, non ti ho mai chiamato per nome. Qualche
volta quasi me lo dimentico poi torno, dall’abisso, e devo usarlo, per forza,
per capire che è andata così.
Che un nome te l’ho dovuto dare.
Ogni tanto corro e tutto ciò che mi circonda si stringe in
un ventaglio di luci verdi e di odore d’ortica.
Le mani spesso toccano la terra e si rattrappiscono dei
sassi, come della tua pelle secca o dei capelli lasciati sui tappetini della
macchina.
Un urlo lento mi fa pensare che il cuore stanotte non
reggerà e che dopo questi miliardi di battiti continui mi lasci sveglio e
pianto alla disgrazia di chi mi conosceva.
Morto con quell’amaro violaceo in faccia e la mano strinta
sul petto, povero ragazzo, pareva vecchio li in quel letto, pareva che la vita
l’avesse condotta tutta.
Io non tornerò, io non tornerò.
Il mare è grande come è grande ogni piccola angoscia.
Ho pianto intere nuvole elettriche, i capillari venivano
fuori sotto gli occhi e sulle palpebre come il sangue gettato sulla neve.
Quanto male ci siamo fatti e come gira lento questo disco,
che le canzoni, che le canzoni adesso, io le capisco subito.
Tutti gli artisti ci conoscono, ogni tela e ogni blu pare
proprio racconti di noi ma noi non torneremo.
Noi non torneremo.
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