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martedì 29 ottobre 2013

Ma quando si va a dormire i capelli si legano o si lasciano sciolti ?




Erano esattamente due anni che ero disoccupato, nel senso preciso, puro e letterale della parola.
In quei due anni avevo speso quasi tutto il mio denaro acquistando oggetti, biglietti e camicie inutili. Una parte di quei soldi, per dirla tutta, l'avevo impiegata durante lo "svolgimento" (dobbiamo chiamarlo così) di alcune storie d'amore prive del senso di compagnia e di prospettiva futura.
Parevano belle quelle storie, parevano belle quelle donne. Portando tutto al presente, e non parlo di vederle da lontano, sono stati dei mostri squamosi che mi hanno divorato l'energia e gran parte del mio animo romantico.
Hanno tentato di azzerarmi.
La fiamma, la piccola scintilla, però, brilla ancora.
Brilla come sempre.
Già da 4 mesi tempestavo improbabili cassette della posta, elettronica e non, col mio scintillante e un pò invecchiato Curriculum Vitae.
In media su 70 Curricula inviati facevo 2 colloqui.
Doveva trasparire proprio un gran carisma e una lucentezza abbacinante della mia persona in quel pezzo di carta.
Capitò persino che una volta sbagliai direttamente il piano del palazzo dove dovevo intrattenere un colloquio. Per telefono mi avevano detto indirizzo, indicazioni e orario ma non ero assolutamente stato capace di capire il nome dell'azienda ne, tantomeno, di quale annuncio si trattasse.
Per farvela breve ci mancò poco che un ragioniere (io) strappasse un assunzione come dottore veterinario.
L'errore non fu affatto imbarazzante. Vivevo un periodo talmente vago e ovattato che avevo perso il senso delle figuracce oltre che del pudore umano.
Avevo assimilato per buono il fatto che le 11:38 erano un orario più che diligente come sveglia mattutina.
D'improvviso, in un giorno di sole e caldo straordinario settembrino, la telefonata: dopo un colloquio mi avevano assunto in un'azienda che operava nel settore della "sicurezza" in una posizione impiegatizia (perlomeno così pareva).
Il giorno dopo mi presi anche la briga di spuntarmi la barba e di indossare una camicia che non puzzasse per presentarmi sul nuovo posto di lavoro.
Dopo 3 ore le cose si fecero chiare, sul ruolo che avrei ricoperto, sulla mia mansione presso la "Secure-One" : dovevo passare la giornata davanti a 3 schermi l'uno di fianco l'altro e seguire in diretta delle immagini provenienti da telecamere di sicurezza, una di queste piazzata dentro un bancomat.
Il tempo, nella prima settimana, scorse anche velocemente. Mi era stato dato il permesso di ascoltare la musica in cuffia mentre fissavo gli schermi e mi ero fatto fuori tutta la discografia di Battiato oltre che quella dei Metallica.
Alla fine della prima settimana mi venne spontaneo di chiedere a cosa servisse il mio lavoro. Facendo due congetture e qualche riflessione pensai che le immagini delle telecamere di sicurezza venissero utilizzate solo a posteriori, quando accadeva qualcosa. Mi venne risposto che era una fase "sperimentale" e doveva essere seguita passo passo, per capire e ipotizzare ulteriori miglioramenti, da parte di una persona, non solo della "macchina" in se.
D'accordo, non lo chiesi più. Guadagnavo benino, mi potevo anche pagare l'affitto e avanzava pure qualche soldo.
Un mercoledì, alle 17:07:39sec, un colpo di scena.
Fissavo lo schermo di destra, quello della telecamera dentro il bancomat.
Lo so, starete già pensando a qualcuno che piazza una bomba, o che si spoglia, o che indossa la maschera da Pippo.
No.
Una ragazza, una ragazza stava prelevando e quella ragazza era la creatura più bella che avessi mai visto.
Indossava una sciarpa lunghissima, un maglione lungo, una collana spessa di metallo. Le sue sopracciglia decise e forti facevano da cornice a due occhi pieni di luce e di sensualità.
Le sue mani erano perfette, si, perfette come forma, come si muovevano.
Le immagini che scorrevano erano in bianco e nero e la cosa rendeva ancora più cinematografica la visione di Lei.
per la prima volta dopo 3 settimane mi degnai di informarmi di quale bancomat si trattasse, di dove si trovasse.
Era a circa 20 km dalla sede del mio lavoro, in un piccolo paesino.
Mi sentivo quasi certo che lei non fosse di li, che fosse di passaggio.
Fissai lo schermo da vicino, non potevo fare alcuna segnalazione, sarei finito nei guai.
La vidi partire con la macchina, riconobbi il modello, feci lo zoom sulla targa e riconobbi dal tipo di grigio che appariva sullo schermo, avendo una spiccata passione per la fotografia, che si trattava di un verde bottiglia.
Le mie 8 ore giornaliere erano scoccate e potevo uscire senza problemi.
Facile immaginare che mi diressi verso quel paesino.
Le mie speranze erano vane, a dire il vero non ci pensavo più di tanto e dovevo, comunque, prendere quella strada per andare al supermercato grande.
Mi era venuta voglia di mangiare etnico.
Lungo il tragitto non vidi neanche l'ombra di quel modello e la speranza si annullò.
Poco male. Negli ultimi 3 anni la delusione era per me come il culo per la camicia : un tutt'uno.
Quel viso, però, quella sciarpa, quegli occhi. Mio dio.
Chissà che profumo aveva, chissà quale fosse la sua voce. Era bella, era il mio ideale. Io il suo.
Arrivo al supermercato, scendo nel parcheggio sotterraneo.
Settore B2, parcheggio 24.
Faccio qualche passo poi qualcosa mi distrae: da uno sportello verde di un'auto, chiusa, esce una sciarpa che tocca il suolo. Mi batte fortissimo il cuore, mi avvicino, leggo la targa.
Era QUELLA macchina.
Impazzisco dalla felicità, l'avevo trovata, in un mese avevo trovato un lavoro e la donna della mia vita, una creatura così bella e sfuggente, e, boom, la fortuna, la sciarpa, lei, li, il supermercato, l'etnico!
Se fossi salito a fare la spesa potevo perderla per sempre. Decisi di aspettarla li.
Passarono 20 minuti ed eccola, con due buste in mano. Camminava quasi salterellando e fischiettava. I suoi riccioli danzavano ritmi africani e quel fischiettìo si fece sempre più allegro.
Le andai incontro, le sorrisi, le presi le buste della spesa senza dire nulla. Lei mi guardò fortissimo negli occhi, aprì il bagagliaio. La aiutai, misi le due buste pesantissime li dentro.
Si avvicinò a me mimando un balletto di danza classica, si fermò a qualche centimetro dalla mia bocca sino, poco dopo, ad annullare anche quella distanza
e mi baciò.
Capimmo subito tutto. Avevamo i pugni e gli sguardi pieni di certezza. Tutto il resto, tutte le cose normali, accaddero con la naturalezza di qualcosa che scende piano da una discesa.
Ci presentammo, cenammo assieme, ci baciammo tutta la notte.
Dopo quattro giorni facemmo l'amore.
Il primo regalo che le feci fu un DVD.
Lo inserì subito nel computer.
Partì uno strano film : si vedeva una ragazza con una sciarpa lunghissima, che prelevava 100 euro, che guardava quel bancomat, che sapeva di sperare e che sperava di sapere quello che poi, alle persone felici, succede.
Quella notte mi chiese se per dormire mi legassi i capelli o li tenessi sciolti.
Non risposi e legai una ciocca dei miei ai suoi.
Lei mi disse "ti amo" per la prima volta.
Anche io lo dissi, per la prima volta.

W.

domenica 27 ottobre 2013

La freccetta



Sveglio.
Dentro la schiena sentivo lo schianto di una roccia su una vetrata.
Saranno state le 4:30 di notte, il telefono era sotto il cuscino con il 4% di batteria. Avevo inviato dei messaggi assurdi solo qualche ora prima, due dolcissimi a una semisconosciuta ed un altro perverso a quella stronza della mia ex.
Mi alzai dal letto,
il pavimento era talmente caldo da far pensare che la pelle della pianta dei piedi si sarebbe appiccicata e staccata rimanendo li, come un’impronta.
Andai verso il bagno per pisciare. Lungo il corridoio colpii un quadro che oscillò e, frusciando sul muro, produsse un suono del tutto simile a quello di una serpe tra le sterpaglie.
Ebbi paura. Ho il terrore dei serpenti e ne avevo appena sognati una dozzina mentre si dimenavano e mi cingevano le caviglie.
Rabbrividii e pisciai.
Avevo la bocca impastata e mi sentivo ubriaco, anche se, la notte prima, avevo bevuto giusto un bicchiere di vino rosso.
Non dormivo più, era quello il vero motivo di questa mia stanchezza cronica.
Era una sensazione orribile. Al momento della sveglia, mentre ero in giro a lavoro e, comunque, fino alle sette della sera, ero come intontito, ovattato. Poi mi stappavo e tornavo in forze sino al crollo a notte fonda.
Non dormivo quasi più e non avevo mai del tutto sonno.
Altre tre settimane ed il mio contratto da postino sarebbe finito e con lui, logicamente, i soldi dell’affitto della mia casetta dei sogni.
Mi piaceva un sacco quel lavoro, lo facevo da 10 mesi. Girare con lo scooter per case di sconosciuti e, per di più, in una zona di campagna come questa, era in fin dei conti rilassante e leggero.
Certo non l’avrei voluto fare per tutta la vita ma un altro anno così lo avrei ripetuto volentieri.
A parte tutto il resto, s’intende.
Avevo finalmente potuto sloggiare da casa dei miei e me ne stavo per conto mio in questo piccolo ma grazioso fienile rimesso. Stavo li col mio computer, la mia chitarra (che non sapevo suonare), le mie idee e con i miei sogni d’artista.
Infilai il sotto del pigiama e decisi di uscire a respirare l’aria delle 5 la mattina. Era domenica e volevo viverla con tutti i tipi di luce quella giornata.
Scesi lungo il vialetto di ghiaia che faceva un rumore splendido sotto i miei passi. Passai vicino alla mia Fiat e la accarezzai come fosse il mio cane.
Camminavo un po’ a zig zag senza sapere dove di preciso volessi andare. Non mi interessava in effetti.
Quell’aria fresca, quasi fredda, era un elisir per i miei bronchi rocciosi e la mia decisione di uscire, anziché cimentarmi in una dormita di stenti sino a mezzogiorno, era stata giusta.
Mentre scendevo verso il paese, mi ero improvvisamente dato quella destinazione, capitò una di quelle cose che sogni poco prima di addormentarti: una turista olandese, sola, giovane e bella che si è persa.
Mi vide ed iniziò ad avvicinarsi. In quei quindici secondi che ci separavano dovevo fare un esame rapido e preciso del mio inglese.
Ok, tutto al right, A sgana wei.
Ero pronto.
Faccio per pronunciare la prima parola e.. sorpresa delle sorprese era italiana come me.
“Hell..c..ciao!”
“Ciao, buongiorno”
“Ahah, scusami! Ero già partito con l’inglese, se così si può chiamare il mio, ero sicuro fossi una turista straniera!”
Ero completamente impazzito, come sempre. Parlavo velocissimo e anziché mostrarmi calmo, superiore e signorile sembravo un venditore di pesce del mercato centrale.
Mi ero anche dimenticato che avevo indosso i pantaloni del pigiama con gli orsetti che si inchiappettano, regalo del mio amico Carlo prima che mi trasferissi, me lo ricordò lei che ci posò lo sguardo sopra un po’ sbigottita. Non vide fori nelle mie braccia dunque si rassicurò:
 “..Si.. me lo dicono spesso che non sembro affatto italiana”
Mi ricomposi con le spalle, misi le mani sui fianchi e risposi:
“Vero. Cosa ci fai, se posso saperlo, in questo paesino dimenticato da dio e per di più alle 5 di mattina?”
Lei sorrise e vidi i suoi denti bianchissimi, perfetti e sinceri.
Fu in quel momento che capii che era una sognatrice come me.
“Puoi benissimo darmi della pazza, della deviata mentale se vuoi, ma ieri notte, era l’una o poco più, proprio non riuscivo a dormire; sai, “una di quelle notti”... Dunque ho lanciato una freccetta sull’enorme carta dell’Italia che ho appesa dietro la porta di camera, cercando di colpire una zona fattibile, ed è uscito questo tuo paese dimenticato da dio. Ho preso le sigarette, una bottiglia d’acqua, 2 pacchetti di biscotti e sono partita. Conosci la sensazione..?… guidare.. la notte.. l’estate.. i Creedence Clearwater Revival.. e sono arrivata dove la sorte mi ha portato, alle 5 la mattina senza neanche una sosta. Per fare questo tipo di cazzate ci vuole più a dirlo che a farlo alla fine, è proprio vero”
La ascoltavo e già immaginavo noi due ubriachi a baciarsi, a ridere, a mangiare un panino in mezzo a un bosco di castagni.
Riattaccai a parlare, ero già innamorato di quella creatura:
“Se davvero è andata così, più che pazza, ti considero una persona normale o, male che vada, sono pazzo anche io e finalmente mi va bene così.
Di cosa avevi bisogno? Volevi delle indicazioni? ”
Portò l’indice sulla bocca e mi disse :
“No, ho bisogno di un favore: il mio telefono è completamente scarico e ho bisogno di fare una telefonata, sai.. mia madre è come me mentre mio padre potrebbe essere preoccupato!”
“Povero babbo ! Certo che dobbiamo chiamarlo! C’è un piccolissimo problema, ho il telefonino a casa, sto qui vicinissimo, andiamo su con la tua macchina, telefoni e poi, se vuoi, ti trovo una mappa e ti faccio tirare un altro paio di freccette, tanto per proseguire il tuo viaggio”
“Ok!”
Mi disse sorridendo.
Aveva parcheggiato appena dietro la curva. La sua macchina, gialla come una pallina da tennis, era piena zeppa di libri, fogli scritti e pacchetti di sigarette vuoti. Dentro c’era un flebile odore di lavanda.
Amavo lei e la sua auto.
Girò le chiavi, si accese lo stereo e partì a tutto volume “Lookin’ out my back door” dei Creedence. Già: la canzone del grande Lebowski.
Per la prima volta ero sveglio come non lo ero da mesi e, sempre per la prima volta dopo molto tempo, ero felice di vivere e di poter sperare che le piccole fantasie ogni tanto si avverano.
Arrivammo a casa mia, vidi che le piacque molto il posto.
Entrai velocissimo e mi precipitai in bagno. Ero certo di non aver tirato lo sciacquone e che il lavandino fosse blu dal dentifricio. Non volevo passare da cafone.
Uscii in un attimo e lei era ancora sulla soglia che osservava il totale disordine ma, allo stesso tempo, ammirava il gusto che avevo avuto nel disordinare tutte quelle cose.
Fu in quell’esatto istante che riuscii a metterla a fuoco, a guardarla tutta.
Era alta, i piedi grandi, le gambe magre e drittissime chiuse in un jeans morbido, liso e aderente. Sopra aveva una maglietta bianca enorme, con lo scollo a barca che mostrava le sue scapole deliziose. Sotto indossava una canottiera nera ancora più lunga della maglina che le copriva la patta dei pantaloni. Non era truccata e si notava che era un po’ stanca dal viaggio. In quel viso dalla pelle morbida dominavano due occhi azzurri rotondi, grandi e bellissimi, incorniciati da delle ciglia lunghissime e delle sopracciglia grandi, spesse e marcate. I capelli color grano accompagnavano con la loro incredibile lunghezza la sinuosità e la perfezione delle sue braccia sino alle mani.
Era bellissima ed era li, in piedi sulla soglia di casa mia.
Sospirai.
Presi il telefono che si trovava ancora sotto il cuscino, era spento, completamente scarico. Lo misi in carica e nel frattempo preparai il caffè. Accesi la musica al computer, scelsi Nina Simone, non potevo sbagliare, almeno con la scelta della musica.
Mi fece qualche apprezzamento sui libri che possedevo e mi prese un po’ in giro per il poster di Bukowski.
Bevemmo il caffè in silenzio, lo prendeva amaro anche lei.
Amavo lei, la sua macchina gialla e il caffè amaro che le si posava sulle labbra.
Staccai il telefonino dal cavo e glielo prestai.
Era ancora prestissimo e, da brava figlia, preferì inviare un sms piuttosto che far sobbalzare dal letto il povero babbo, di domenica poi.
Scrisse il messaggio, lunghissimo, lo rilesse, lo inviò e lo cancellò dalla memoria.
Scosse le spalle sorridendo, si diresse verso la porta e mi ringraziò in modo buffo e irriverente :
“Grazie mille delle gentilezze che mi avete concesso, adesso lascio il vostro feudo per proseguire ancora un po’ il mio viaggio e, non appena sarà giusto, rientrerò nella mia terra natìa”
Avevo capito benissimo che se ne voleva andare, lo stava facendo in modo simpatico, rispettoso e netto.
Non cercava me.
Forse non cercava nessuno o niente in particolare.
Feci un inchino e la salutai così:
“Stare ai suoi servigi è stato per me gratificante e delizioso, darle questo addio è logorante e maledettamente ruvido.
Addio”
mi guardò negli occhi e rispose :
“Se mi troverai, se ci riuscirai, ti prometto il mio caffè amaro, una tazza o poche gocce, quanto ne gradirai”
Sembrava che avesse letto nel mio pensiero. Sembrava che mentre osservavo, pochi minuti prima, quelle poche gocce di caffè che si posavano sulle sue labbra e le desideravo sulle mia, lei lo sapesse, se ne fosse accorta.
Mi avvicinai per capire meglio e chiuse la porta.
Accese la sua macchina gialla e partì.
Non sapevo praticamente niente di lei.
Alzai il volume, mi buttai a pancia in giù sul letto e mi disperai ripensando a quanto ero un coglione, un tonto.
Sferrai un pugno sul cuscino dalla rabbia poi, d’improvviso, feci un grosso respiro, mi alzai e bevendo un bicchiere d’acqua ghiacciato mi misi a pensare.
“Mi ha detto di essere partita appena dopo l’una di notte, mettiamo le una e venti, è arrivata qui alle cinque, mi ha detto di non aver fatto nessuna sosta, ho letto la provincia sulla targa della sua auto, l’accento in effetti corrisponde, entrando in macchina ho notato il porta tagliando dell’assicurazione, rosso, con un nome buffo..composto da “auto” e qualche “z”..autozzi, autouzzi, automazzi, autozizzi, aut..era rosso quel porta tagliandino…auto zitti…AUTOZATTI!”
Andai subito a cercare e la notizia fu sorprendente : quel concessionario esisteva, era in un paesino di 5000 abitanti nella provincia che riportava la targa ed era anche plausibile il tempo che lei aveva impiegato per arrivare sin qua.
La macchina era sporca, c’erano molti aghi di pino incastrati sotto i tergicristalli dunque doveva parcheggiarla fuori, per strada, non in garage. Bastava girare tutto il paesino e trovare quella macchina gialla. Il giorno dopo sarei andato a lavoro ma martedì avrei preso ferie, sarei partito e l’avrei trovata. Ero felice, di nuovo, dopo la rabbia e la disperazione. La speranza sotterrava tutto il resto.
Il lunedì finì presto tra il lavoro, le mie ricerche, i miei itinerari e le mappe.
Martedì, ore 15:30, partenza.
Ghiaia, stradina, strada, superstrada, autostrada, superstrada, strada, stradina.
Vedo il cartello del paese e mi emoziono. Il viaggio è schioccato veloce come un lampo.
Giro per tutto il paese lentamente, in macchina, inforcando gli occhiali per vederci meglio.
Sembro uno della CIA.
Incappo in un viale pieno di pini, giro a sinistra verso dei giardinetti costeggiati da delle villette verdi.
Inchiodo.
Sono le 20:00 e vedo la macchina gialla, è la sua.
Il cuore impazzisce, parcheggio urtando violentemente contro il marciapiede. Tolgo gli occhiali, scendo e respiro.
Risalgo.
Avevo deciso di indossare di nuovo il pigiama con gli orsetti che si inchiappettano, non so di preciso il perché.
Passarono quaranta minuti e la porta di casa sua si aprì.
Era lei.
La vidi uscire e scendere i pochi gradini che la portavano al cancellino. Io mi trovavo dall’altro lato della strada. Scesi velocemente dalla macchina e mi diressi verso le piccole strisce pedonali tra il suo marciapiede e i giardinetti. Era senso unico e doveva per forza andare dritto per quei 15 metri. Appena accese i fari e partì, io feci per attraversare facendomi trovare nel mezzo di strada esattamente mentre arrivava.
Rallentò. Io mi fermai.
Abbagliò, io mi voltai.
Spense il motore, scese, la guardai, sorrisi.
Aveva appena preso il caffè.

Noi non torneremo



E’ arrivato tutto insieme, sulla cresta dell’onda delle tue ciglia.
Un colpo forte dentro la gola, un altro al centro del cuore.
E le rotonde e i lampioni e i fiori e le fotografie.
Andiamo avanti da soli a costruire o a non costruire niente, in questo docile presente unto di cose nostre, di medicine dolci e graffi al cielo.
Noi due come chiunque poteva essere dei mille.
Noi due come due farfalle di campo che si spruzzano di polvere magica, che volteggiano forti delle loro ali e debolissime di una sola goccia di rugiada amara.
Io, amore mio, non ti ho mai chiamato per nome. Qualche volta quasi me lo dimentico poi torno, dall’abisso, e devo usarlo, per forza, per capire che è andata così.
Che un nome te l’ho dovuto dare.
Ogni tanto corro e tutto ciò che mi circonda si stringe in un ventaglio di luci verdi e di odore d’ortica.
Le mani spesso toccano la terra e si rattrappiscono dei sassi, come della tua pelle secca o dei capelli lasciati sui tappetini della macchina.
Un urlo lento mi fa pensare che il cuore stanotte non reggerà e che dopo questi miliardi di battiti continui mi lasci sveglio e pianto alla disgrazia di chi mi conosceva.
Morto con quell’amaro violaceo in faccia e la mano strinta sul petto, povero ragazzo, pareva vecchio li in quel letto, pareva che la vita l’avesse condotta tutta.
Io non tornerò, io non tornerò.
Il mare è grande come è grande ogni piccola angoscia.
Ho pianto intere nuvole elettriche, i capillari venivano fuori sotto gli occhi e sulle palpebre come il sangue gettato sulla neve.
Quanto male ci siamo fatti e come gira lento questo disco, che le canzoni, che le canzoni adesso, io le capisco subito.
Tutti gli artisti ci conoscono, ogni tela e ogni blu pare proprio racconti di noi ma noi non torneremo.
Noi non torneremo. 

Ho vissuto 16 anni da sola e 60 con Lui



"Ho vissuto 16 anni da sola e 60 con Lui" 
Ti è sempre piaciuto dire quella frase, dirla a tutti, cambiando di decade in decade il secondo numero.
Mentre la dici mi indichi con la mano con fare ironico e scherzoso, qualche volta anche schifato per far ridere di più gli altri.
Come ogni anno, e come il giramento della terra decideva, arrivava l'estate e noi andavamo al mare, anche se i ginocchi ballavano il tip-tap già da qualche tempo..
Prendevamo il nostro camper azzurro e bianco, un pò scarrettato ma pieno zeppo di odori, di bei ricordi e partivamo. 
Il bivio dopo il grande pino lo sbagliavo sempre ed ogni volta, da ormai 10 anni, partiva la discussione "Era dopo ! te l'avevo detto !" "No io l'avevo detto, tu avevi detto che era prima!" "Si ma il pino non era quello!" . Poi ci prendeva il ridere, tornavamo tra grandi e difficili manovre indietro e riprendevamo verso la destinazione.
Arrivati sceglievamo la panchina migliore per dare il primo saluto al mare. Io volevo sceglierla bene e tu ti innervosivi, allora mi appioppavi la borsa e partivi in una corsa sbilenca, trovavi il posto giusto e ti sedevi.
Arrivavo io, sorridente, col berretto verde in testa e la borsa in spalla. 
Ti facevo un pizzico sulla tua ultima camicia a fiori fucsia e blu,
ci guardavamo e sapevamo che eravamo vecchi per baciarci e sbiaditi per dirci "ti amo".
Ci toccavamo il naso l'un l'altra, con la punta dell'indice,
e con le sopracciglia ci dicevamo "ti voglio bene amore"