martedì 31 dicembre 2013
lunedì 30 dicembre 2013
martedì 24 dicembre 2013
La roba
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lunedì 9 dicembre 2013
Noi non ritorneremo
Viaggiavo. Viaggiavo
nervoso come le gomme della mia auto, sulla strada piena di buche e pozzanghere.
Era uno di
quei rarissimi casi nei quali lo stereo era spento.
In macchina
non succedeva mai.
Quel
silenzio trasportò la mia memoria e le mie sensazioni a quei momenti dopo i
litigi, con Lei, quando tornavamo a casa e non esisteva canzone da ascoltare.
L’incedere e
lo scalare delle marce, il cigolìo degli ammortizzatori, il tintinnare dei
vetri riempivano quella nostra guerra del silenzio.
La rabbia
trasudava dalle maniche e dal colletto e marcava, via via e sino a quella che
sarebbe stata poi la fine, il declino di un amore.
Scossi la
testa e spazzolai via, alla meno peggio, quei putridi ricordi.
Parcheggiai
davanti al market, che stava chiudendo, dove avrei trovato l’ennesima bottiglia
consolatrice e ispiratrice di un nuovo breve sorriso.
Non portai
dentro il portafoglio, gonfio e livido, che pareva vomitasse scontrini
ingialliti, ma presi giusto i dieci euro che si affacciavano tra le varie
cartacce.
Poi vidi la
penna e si accese il solito pensiero di demenza poetica.
Ci scrissi
sopra “Noi non ritorneremo”.
Sorrisi
soddisfatto tra me e me ed entrai.
Una volta
alla cassa Matteo non notò niente e fece scomparire la mia banconota speciale
nel registratore.
Tornai a
casa, mangiai una grossa fetta abbrustolita di pan con l’olio, strofinata con
un po’ d’aglio, e sorseggiai il rosso sino ad ucciderlo un’ora dopo.
Il sabato e
la domenica trascorsero tra grossi respiri, buona musica e qualche fotografia
ai rami degli alberi denudati dall’autunno.
Riecco il
lunedì, sempre puntuale, riecco le partenze all’alba verso il mio lavoro umile.
Così fu la
mia vita per 3 anni.
La mia vita
fatta di settimane messe in riga dalla routine, di pochi soldi incassati e di
molti sogni logori e stagnanti.
Il mio
appartamento aveva iniziato a farmi schifo.
Mi faceva
schifo quel divano, unico pezzo di arredamento, e quelle seggiole così
pacchiane.
Dopo 4 anni
di forzata stabilità ero vicino al grande crollo. Di nuovo.
Mi guardai
indietro, riaprii i miei diari, gli hard disk e tutti i canovacci delle mie
opere incompiute.
Niente.
Io, che
senza tanti sforzi e senza studio volevo fare l’Artista ed essere d’esempio ai
deboli ed ai sensibili, non avevo fatto un bel niente.
Ripensai
alle occasioni di carriera di quando avevo 20 anni sulle quali avevo sputato
sopra e, armandomi dei “se” e dei “ma”, cercavo di immaginare chi sarei
diventato se avessi detto di “si” all’ufficio, a Milano, alla Germania, alla
Spagna a Bologna o non so dove.
Mi vedevo
con una bella macchina nuova, bianca, in un appartamentino in centro, a
convivere, a bere cioccolato caldo o thè con una ragazza coi capelli sempre
puliti e lisci.
Mi arrabbiai
e mi facevo più schifo del mio divano e delle seggiole messi insieme.
Uscii.
Sentivo che
l’unico modo era caricarmi della delusione, del vino, del milionesimo litro
forse, e calmarmi. Dirmi che “andava bene così” che tutto era per Lei, per la
nostra storia andata a male.
Il market
non c’era più, adesso c’era un iper-store, ad un paio di chilometri, con il reparto “cantinetta”, che
ti pareva di essere un intenditore, col vino che arrivava da tutto il mondo.
Presi un
Barolo da 90 euro.
Volevo
capire una volta per tutte cosa significasse.
Andai alla
cassa 24, c’era una cassiera bellissima e piena di fascino. Mi ricordava Karen Dalton.
Con gran
classe estrassi dal portafoglio il pezzo verde, il pezzo da 100, e pagai.
Ed eccoci.
Ci siamo.
Eccoci nel
preciso momento in cui il destino ti picchietta alla spalla, vestito di grigio,
e ti dice tutto della vita con una breve frase sospirata alla mente e
all’anima.
La cassiera
mi allunga i 10 euro di resto.
Quei 10 euro
li.
Mi
immobilizzo.
Il mio
pollice destro, assieme all’indice sotto, stringe la banconota da un lato.
Davanti a me
fa lo stesso lei, la cassiera, che legge la frase.
Mi guarda,
sorride con gli occhi, e mi parla :
“Chissà dove
andremo a finire.. eh, Walter”.
Mi svegliai.
Che sbronza.
lunedì 2 dicembre 2013
Cotton Fields
Noi, quelli coi sentimenti, ci passiamo tutti dal super dottore. Che non è più stress, che è normale, che gli incubi è bene ci siano, spurgano la depressione.
Ho sognato, nel sonno malato di un pomeriggio, di raccogliere la tua automobile dai binari del treno, poi altre cose, poi noi sulla montagna sino, poi, alla neve, a tirarci la neve, ad assaggiarla. Buio, nel bosco buio, io avevo il terrore, tu sorridevi, non avevi paura.
Passano gli anni possibile? Anni, mesi, giorni come macigni.
Anni.
lunedì 25 novembre 2013
Tutti i posti
Tutti i posti
dove siamo stati insieme
mi guardano arrivare da solo.
La polpa della terra mi prende alle caviglie
chiedendomi di te.
Non le rispondo
e mi lascio inghiottire.
La terra beve me
e beve quello che ho bevuto
lunedì 18 novembre 2013
Figli delle stelle
Lo hai sentito anche tu ?
Lo hai sentito anche tu ?
Lo hai sentito anche tu ?
Lo hai sentito anche tu ?
Lo hai sentito anche tu ?
Io ho paura che, dopo aver limitato l'inizio ed esserci riuscito poi,
si,
mi è parso proprio di averlo sentito.
E tu lo hai sentito.
Si! Anche tu e lo sai!
Mio dio, che allerta che ci siamo provocati!
Esondano le parole giuste in vasche di lacrime.
Lo hai sentito anche tu ?
Lo hai sentito anche tu ?
Lo hai sentito anche tu ?
Le stelle cazzo,
le stelle cazzo,
guarda come ci piace guardarle allo stesso modo,
guarda come ci abbiamo visto lo stesso disegno,
guarda come ci abbiamo sentito l'odore di camomilla
Lo hai sentito anche tu ?
venerdì 8 novembre 2013
Piccole persone
La cosa più preziosa che perdiamo, nel corso della vita, è la nostra fanciullezza.
Come quasi tutte le cose, anche questa, te la porta via il tempo.
Te la porta via in modo completo, senza lasciarti nemmeno la traccia di un puro ricordo.
Il trucco per rimanere bambini è saper stare coi bambini.
E' continuare a giocare, è guardare nella loro direzione, è riscoprire la logica.
Cresce un enorme respiro dentro di te quando un bambino ti gratifica, quando un'altro cerca la tua attenzione, quando un bambino ti guarda e gli si tingono le gote di rosso.
Ti senti dio quando li fai ridere di una gioia che esplode,
ti senti un mostro quando li fai piangere.
Vorresti che ognuno di loro fosse il "tuo bambino", per svegliarlo la mattina, per dipingere con lui i muri di una città, per vestirti come lui a carnevale.
L'enorme distanza che corre tra i grandi e i bambini è coperta da una e una sola sottile mancanza : la nostra certezza che loro non capiscano e la nostra assenza di sentimenti limpidi che loro sono nel pieno di poter provare.
sabato 2 novembre 2013
Che tu l'amore lo facevi bene
Quando ci sfioravamo soltanto
ed iniziavano a tremarci le gambe.
Che con gli occhi negli occhi,
in un frammento di secondo,
ci dicevamo "prendimi".
Che ci mordeva nei fianchi la voglia di fare l'amore.
Divoravamo la cena nella casa dei miei o in quella dei tuoi
e partivamo in macchina cambiando veloce le marce,
facendo bollire il sangue nell'adrenalina nelle curve veloci
per poi trovare il bosco,
che non erano nemmeno le 9,
e i nostri corpi ballavano fino al giorno dopo.
Per finire poi in quel silenzio bellissimo
interrotto solo dai tonfi dei nostri cuori così esausti
e così felici.
martedì 29 ottobre 2013
Ma quando si va a dormire i capelli si legano o si lasciano sciolti ?
Erano esattamente due anni che ero disoccupato, nel senso
preciso, puro e letterale della parola.
In quei due anni avevo speso quasi tutto il mio denaro
acquistando oggetti, biglietti e camicie inutili. Una parte di quei soldi, per
dirla tutta, l'avevo impiegata durante lo "svolgimento" (dobbiamo
chiamarlo così) di alcune storie d'amore prive del senso di compagnia e di
prospettiva futura.
Parevano belle quelle storie, parevano belle quelle donne.
Portando tutto al presente, e non parlo di vederle da lontano, sono stati dei
mostri squamosi che mi hanno divorato l'energia e gran parte del mio animo
romantico.
Hanno tentato di azzerarmi.
La fiamma, la piccola scintilla, però, brilla ancora.
Brilla come sempre.
Già da 4 mesi tempestavo improbabili cassette della posta,
elettronica e non, col mio scintillante e un pò invecchiato Curriculum Vitae.
In media su 70 Curricula inviati facevo 2 colloqui.
Doveva trasparire proprio un gran carisma e una lucentezza
abbacinante della mia persona in quel pezzo di carta.
Capitò persino che una volta sbagliai direttamente il piano del
palazzo dove dovevo intrattenere un colloquio. Per telefono mi avevano detto
indirizzo, indicazioni e orario ma non ero assolutamente stato capace di capire
il nome dell'azienda ne, tantomeno, di quale annuncio si trattasse.
Per farvela breve ci mancò poco che un ragioniere (io)
strappasse un assunzione come dottore veterinario.
L'errore non fu affatto imbarazzante. Vivevo un periodo talmente
vago e ovattato che avevo perso il senso delle figuracce oltre che del pudore
umano.
Avevo assimilato per buono il fatto che le 11:38 erano un orario
più che diligente come sveglia mattutina.
D'improvviso, in un giorno di sole e caldo straordinario
settembrino, la telefonata: dopo un colloquio mi avevano assunto in un'azienda
che operava nel settore della "sicurezza" in una posizione
impiegatizia (perlomeno così pareva).
Il giorno dopo mi presi anche la briga di spuntarmi la barba e
di indossare una camicia che non puzzasse per presentarmi sul nuovo posto di
lavoro.
Dopo 3 ore le cose si fecero chiare, sul ruolo che avrei
ricoperto, sulla mia mansione presso la "Secure-One" : dovevo passare
la giornata davanti a 3 schermi l'uno di fianco l'altro e seguire in diretta
delle immagini provenienti da telecamere di sicurezza, una di queste piazzata
dentro un bancomat.
Il tempo, nella prima settimana, scorse anche velocemente. Mi
era stato dato il permesso di ascoltare la musica in cuffia mentre fissavo gli
schermi e mi ero fatto fuori tutta la discografia di Battiato oltre che quella
dei Metallica.
Alla fine della prima settimana mi venne spontaneo di chiedere a
cosa servisse il mio lavoro. Facendo due congetture e qualche riflessione
pensai che le immagini delle telecamere di sicurezza venissero utilizzate solo
a posteriori, quando accadeva qualcosa. Mi venne risposto che era una fase
"sperimentale" e doveva essere seguita passo passo, per capire e
ipotizzare ulteriori miglioramenti, da parte di una persona, non solo della
"macchina" in se.
D'accordo, non lo chiesi più. Guadagnavo benino, mi potevo anche
pagare l'affitto e avanzava pure qualche soldo.
Un mercoledì, alle 17:07:39sec, un colpo di scena.
Fissavo lo schermo di destra, quello della telecamera dentro il
bancomat.
Lo so, starete già pensando a qualcuno che piazza una bomba, o
che si spoglia, o che indossa la maschera da Pippo.
No.
Una ragazza, una ragazza stava prelevando e quella ragazza era
la creatura più bella che avessi mai visto.
Indossava una sciarpa lunghissima, un maglione lungo, una collana
spessa di metallo. Le sue sopracciglia decise e forti facevano da cornice a due
occhi pieni di luce e di sensualità.
Le sue mani erano perfette, si, perfette come forma, come si
muovevano.
Le immagini che scorrevano erano in bianco e nero e la cosa
rendeva ancora più cinematografica la visione di Lei.
per la prima volta dopo 3 settimane mi degnai di informarmi di
quale bancomat si trattasse, di dove si trovasse.
Era a circa 20 km dalla sede del mio lavoro, in un piccolo
paesino.
Mi sentivo quasi certo che lei non fosse di li, che fosse di
passaggio.
Fissai lo schermo da vicino, non potevo fare alcuna
segnalazione, sarei finito nei guai.
La vidi partire con la macchina, riconobbi il modello, feci lo
zoom sulla targa e riconobbi dal tipo di grigio che appariva sullo schermo,
avendo una spiccata passione per la fotografia, che si trattava di un verde
bottiglia.
Le mie 8 ore giornaliere erano scoccate e potevo uscire senza
problemi.
Facile immaginare che mi diressi verso quel paesino.
Le mie speranze erano vane, a dire il vero non ci pensavo più di
tanto e dovevo, comunque, prendere quella strada per andare al supermercato
grande.
Mi era venuta voglia di mangiare etnico.
Lungo il tragitto non vidi neanche l'ombra di quel modello e la
speranza si annullò.
Poco male. Negli ultimi 3 anni la delusione era per me come il
culo per la camicia : un tutt'uno.
Quel viso, però, quella sciarpa, quegli occhi. Mio dio.
Chissà che profumo aveva, chissà quale fosse la sua voce. Era
bella, era il mio ideale. Io il suo.
Arrivo al supermercato, scendo nel parcheggio sotterraneo.
Settore B2, parcheggio 24.
Faccio qualche passo poi qualcosa mi distrae: da uno sportello
verde di un'auto, chiusa, esce una sciarpa che tocca il suolo. Mi batte
fortissimo il cuore, mi avvicino, leggo la targa.
Era QUELLA macchina.
Impazzisco dalla felicità, l'avevo trovata, in un mese avevo
trovato un lavoro e la donna della mia vita, una creatura così bella e sfuggente,
e, boom, la fortuna, la sciarpa, lei, li, il supermercato, l'etnico!
Se fossi salito a fare la spesa potevo perderla per sempre.
Decisi di aspettarla li.
Passarono 20 minuti ed eccola, con due buste in mano. Camminava
quasi salterellando e fischiettava. I suoi riccioli danzavano ritmi africani e
quel fischiettìo si fece sempre più allegro.
Le andai incontro, le sorrisi, le presi le buste della spesa
senza dire nulla. Lei mi guardò fortissimo negli occhi, aprì il bagagliaio. La
aiutai, misi le due buste pesantissime li dentro.
Si avvicinò a me mimando un balletto di danza classica, si fermò
a qualche centimetro dalla mia bocca sino, poco dopo, ad annullare anche quella
distanza
e mi baciò.
Capimmo subito tutto. Avevamo i pugni e gli sguardi pieni di
certezza. Tutto il resto, tutte le cose normali, accaddero con la naturalezza
di qualcosa che scende piano da una discesa.
Ci presentammo, cenammo assieme, ci baciammo tutta la notte.
Dopo quattro giorni facemmo l'amore.
Il primo regalo che le feci fu un DVD.
Lo inserì subito nel computer.
Partì uno strano film : si vedeva una ragazza con una sciarpa
lunghissima, che prelevava 100 euro, che guardava quel bancomat, che sapeva di
sperare e che sperava di sapere quello che poi, alle persone felici, succede.
Quella notte mi chiese se per dormire mi legassi i capelli o li
tenessi sciolti.
Non risposi e legai una ciocca dei miei ai suoi.
Lei mi disse "ti amo" per la prima volta.
Anche io lo dissi, per la prima volta.
W.
domenica 27 ottobre 2013
La freccetta
Sveglio.
Dentro la schiena sentivo lo
schianto di una roccia su una vetrata.
Saranno state le 4:30 di
notte, il telefono era sotto il cuscino con il 4% di batteria. Avevo inviato
dei messaggi assurdi solo qualche ora prima, due dolcissimi a una
semisconosciuta ed un altro perverso a quella stronza della mia ex.
Mi alzai dal letto,
il pavimento era talmente
caldo da far pensare che la pelle della pianta dei piedi si sarebbe appiccicata
e staccata rimanendo li, come un’impronta.
Andai verso il bagno per pisciare.
Lungo il corridoio colpii un quadro che oscillò e, frusciando sul muro, produsse
un suono del tutto simile a quello di una serpe tra le sterpaglie.
Ebbi paura. Ho il terrore
dei serpenti e ne avevo appena sognati una dozzina mentre si dimenavano e mi
cingevano le caviglie.
Rabbrividii e pisciai.
Avevo la bocca impastata e
mi sentivo ubriaco, anche se, la notte prima, avevo bevuto giusto un bicchiere
di vino rosso.
Non dormivo più, era quello
il vero motivo di questa mia stanchezza cronica.
Era una sensazione orribile.
Al momento della sveglia, mentre ero in giro a lavoro e, comunque, fino alle
sette della sera, ero come intontito, ovattato. Poi mi stappavo e tornavo in
forze sino al crollo a notte fonda.
Non dormivo quasi più e non
avevo mai del tutto sonno.
Altre tre settimane ed il
mio contratto da postino sarebbe finito e con lui, logicamente, i soldi
dell’affitto della mia casetta dei sogni.
Mi piaceva un sacco quel lavoro,
lo facevo da 10 mesi. Girare con lo scooter per case di sconosciuti e, per di
più, in una zona di campagna come questa, era in fin dei conti rilassante e
leggero.
Certo non l’avrei voluto
fare per tutta la vita ma un altro anno così lo avrei ripetuto volentieri.
A parte tutto il resto,
s’intende.
Avevo finalmente potuto
sloggiare da casa dei miei e me ne stavo per conto mio in questo piccolo ma
grazioso fienile rimesso. Stavo li col mio computer, la mia chitarra (che non
sapevo suonare), le mie idee e con i miei sogni d’artista.
Infilai il sotto del pigiama
e decisi di uscire a respirare l’aria delle 5 la mattina. Era domenica e volevo
viverla con tutti i tipi di luce quella giornata.
Scesi lungo il vialetto di
ghiaia che faceva un rumore splendido sotto i miei passi. Passai vicino alla
mia Fiat e la accarezzai come fosse il mio cane.
Camminavo un po’ a zig zag
senza sapere dove di preciso volessi andare. Non mi interessava in effetti.
Quell’aria fresca, quasi
fredda, era un elisir per i miei bronchi rocciosi e la mia decisione di uscire,
anziché cimentarmi in una dormita di stenti sino a mezzogiorno, era stata
giusta.
Mentre scendevo verso il
paese, mi ero improvvisamente dato quella destinazione, capitò una di quelle
cose che sogni poco prima di addormentarti: una turista olandese, sola, giovane
e bella che si è persa.
Mi vide ed iniziò ad
avvicinarsi. In quei quindici secondi che ci separavano dovevo fare un esame
rapido e preciso del mio inglese.
Ok, tutto al right, A sgana
wei.
Ero pronto.
Faccio per pronunciare la
prima parola e.. sorpresa delle sorprese era italiana come me.
“Hell..c..ciao!”
“Ciao, buongiorno”
“Ahah, scusami! Ero già
partito con l’inglese, se così si può chiamare il mio, ero sicuro fossi una
turista straniera!”
Ero completamente impazzito,
come sempre. Parlavo velocissimo e anziché mostrarmi calmo, superiore e
signorile sembravo un venditore di pesce del mercato centrale.
Mi ero anche dimenticato che
avevo indosso i pantaloni del pigiama con gli orsetti che si inchiappettano,
regalo del mio amico Carlo prima che mi trasferissi, me lo ricordò lei che ci
posò lo sguardo sopra un po’ sbigottita. Non vide fori nelle mie braccia dunque
si rassicurò:
“..Si.. me lo dicono spesso che non sembro affatto italiana”
Mi ricomposi con le spalle,
misi le mani sui fianchi e risposi:
“Vero. Cosa ci fai, se posso
saperlo, in questo paesino dimenticato da dio e per di più alle 5 di mattina?”
Lei sorrise e vidi i suoi
denti bianchissimi, perfetti e sinceri.
Fu in quel momento che capii
che era una sognatrice come me.
“Puoi benissimo darmi della
pazza, della deviata mentale se vuoi, ma ieri notte, era l’una o poco più,
proprio non riuscivo a dormire; sai, “una di quelle notti”... Dunque ho lanciato
una freccetta sull’enorme carta dell’Italia che ho appesa dietro la porta di
camera, cercando di colpire una zona fattibile, ed è uscito questo tuo paese
dimenticato da dio. Ho preso le sigarette, una bottiglia d’acqua, 2 pacchetti
di biscotti e sono partita. Conosci la sensazione..?… guidare.. la notte..
l’estate.. i Creedence Clearwater Revival.. e sono arrivata dove la sorte mi ha
portato, alle 5 la mattina senza neanche una sosta. Per fare questo tipo di
cazzate ci vuole più a dirlo che a farlo alla fine, è proprio vero”
La ascoltavo e già immaginavo
noi due ubriachi a baciarsi, a ridere, a mangiare un panino in mezzo a un bosco
di castagni.
Riattaccai a parlare, ero
già innamorato di quella creatura:
“Se davvero è andata così,
più che pazza, ti considero una persona normale o, male che vada, sono pazzo
anche io e finalmente mi va bene così.
Di cosa avevi bisogno?
Volevi delle indicazioni? ”
Portò l’indice sulla bocca e
mi disse :
“No, ho bisogno di un
favore: il mio telefono è completamente scarico e ho bisogno di fare una
telefonata, sai.. mia madre è come me mentre mio padre potrebbe essere
preoccupato!”
“Povero babbo ! Certo che
dobbiamo chiamarlo! C’è un piccolissimo problema, ho il telefonino a casa, sto
qui vicinissimo, andiamo su con la tua macchina, telefoni e poi, se vuoi, ti
trovo una mappa e ti faccio tirare un altro paio di freccette, tanto per
proseguire il tuo viaggio”
“Ok!”
Mi disse sorridendo.
Aveva parcheggiato appena
dietro la curva. La sua macchina, gialla come una pallina da tennis, era piena
zeppa di libri, fogli scritti e pacchetti di sigarette vuoti. Dentro c’era un
flebile odore di lavanda.
Amavo lei e la sua auto.
Girò le chiavi, si accese lo
stereo e partì a tutto volume “Lookin’ out my back door” dei Creedence. Già: la
canzone del grande Lebowski.
Per la prima volta ero
sveglio come non lo ero da mesi e, sempre per la prima volta dopo molto tempo,
ero felice di vivere e di poter sperare che le piccole fantasie ogni tanto si
avverano.
Arrivammo a casa mia, vidi
che le piacque molto il posto.
Entrai velocissimo e mi
precipitai in bagno. Ero certo di non aver tirato lo sciacquone e che il
lavandino fosse blu dal dentifricio. Non volevo passare da cafone.
Uscii in un attimo e lei era
ancora sulla soglia che osservava il totale disordine ma, allo stesso tempo,
ammirava il gusto che avevo avuto nel disordinare tutte quelle cose.
Fu in quell’esatto istante
che riuscii a metterla a fuoco, a guardarla tutta.
Era alta, i piedi grandi, le
gambe magre e drittissime chiuse in un jeans morbido, liso e aderente. Sopra
aveva una maglietta bianca enorme, con lo scollo a barca che mostrava le sue
scapole deliziose. Sotto indossava una canottiera nera ancora più lunga della
maglina che le copriva la patta dei pantaloni. Non era truccata e si notava che
era un po’ stanca dal viaggio. In quel viso dalla pelle morbida dominavano due
occhi azzurri rotondi, grandi e bellissimi, incorniciati da delle ciglia lunghissime
e delle sopracciglia grandi, spesse e marcate. I capelli color grano
accompagnavano con la loro incredibile lunghezza la sinuosità e la perfezione
delle sue braccia sino alle mani.
Era bellissima ed era li, in
piedi sulla soglia di casa mia.
Sospirai.
Presi il telefono che si
trovava ancora sotto il cuscino, era spento, completamente scarico. Lo misi in
carica e nel frattempo preparai il caffè. Accesi la musica al computer, scelsi
Nina Simone, non potevo sbagliare, almeno con la scelta della musica.
Mi fece qualche
apprezzamento sui libri che possedevo e mi prese un po’ in giro per il poster
di Bukowski.
Bevemmo il caffè in
silenzio, lo prendeva amaro anche lei.
Amavo lei, la sua macchina
gialla e il caffè amaro che le si posava sulle labbra.
Staccai il telefonino dal
cavo e glielo prestai.
Era ancora prestissimo e, da
brava figlia, preferì inviare un sms piuttosto che far sobbalzare dal letto il
povero babbo, di domenica poi.
Scrisse il messaggio,
lunghissimo, lo rilesse, lo inviò e lo cancellò dalla memoria.
Scosse le spalle sorridendo,
si diresse verso la porta e mi ringraziò in modo buffo e irriverente :
“Grazie mille delle
gentilezze che mi avete concesso, adesso lascio il vostro feudo per proseguire
ancora un po’ il mio viaggio e, non appena sarà giusto, rientrerò nella mia
terra natìa”
Avevo capito benissimo che
se ne voleva andare, lo stava facendo in modo simpatico, rispettoso e netto.
Non cercava me.
Forse non cercava nessuno o
niente in particolare.
Feci un inchino e la salutai
così:
“Stare ai suoi servigi è
stato per me gratificante e delizioso, darle questo addio è logorante e
maledettamente ruvido.
Addio”
mi guardò negli occhi e
rispose :
“Se mi troverai, se ci
riuscirai, ti prometto il mio caffè amaro, una tazza o poche gocce, quanto ne
gradirai”
Sembrava che avesse letto
nel mio pensiero. Sembrava che mentre osservavo, pochi minuti prima, quelle
poche gocce di caffè che si posavano sulle sue labbra e le desideravo sulle
mia, lei lo sapesse, se ne fosse accorta.
Mi avvicinai per capire
meglio e chiuse la porta.
Accese la sua macchina
gialla e partì.
Non sapevo praticamente
niente di lei.
Alzai il volume, mi buttai a
pancia in giù sul letto e mi disperai ripensando a quanto ero un coglione, un
tonto.
Sferrai un pugno sul cuscino
dalla rabbia poi, d’improvviso, feci un grosso respiro, mi alzai e bevendo un
bicchiere d’acqua ghiacciato mi misi a pensare.
“Mi ha detto di essere
partita appena dopo l’una di notte, mettiamo le una e venti, è arrivata qui
alle cinque, mi ha detto di non aver fatto nessuna sosta, ho letto la provincia
sulla targa della sua auto, l’accento in effetti corrisponde, entrando in
macchina ho notato il porta tagliando dell’assicurazione, rosso, con un nome
buffo..composto da “auto” e qualche “z”..autozzi, autouzzi, automazzi,
autozizzi, aut..era rosso quel porta tagliandino…auto zitti…AUTOZATTI!”
Andai subito a cercare e la
notizia fu sorprendente : quel concessionario esisteva, era in un paesino di
5000 abitanti nella provincia che riportava la targa ed era anche plausibile il
tempo che lei aveva impiegato per arrivare sin qua.
La macchina era sporca,
c’erano molti aghi di pino incastrati sotto i tergicristalli dunque doveva
parcheggiarla fuori, per strada, non in garage. Bastava girare tutto il paesino
e trovare quella macchina gialla. Il giorno dopo sarei andato a lavoro ma
martedì avrei preso ferie, sarei partito e l’avrei trovata. Ero felice, di
nuovo, dopo la rabbia e la disperazione. La speranza sotterrava tutto il resto.
Il lunedì finì presto tra il
lavoro, le mie ricerche, i miei itinerari e le mappe.
Martedì, ore 15:30,
partenza.
Ghiaia, stradina, strada, superstrada,
autostrada, superstrada, strada, stradina.
Vedo il cartello del paese e
mi emoziono. Il viaggio è schioccato veloce come un lampo.
Giro per tutto il paese
lentamente, in macchina, inforcando gli occhiali per vederci meglio.
Sembro uno della CIA.
Incappo in un viale pieno di
pini, giro a sinistra verso dei giardinetti costeggiati da delle villette verdi.
Inchiodo.
Sono le 20:00 e vedo la
macchina gialla, è la sua.
Il cuore impazzisce,
parcheggio urtando violentemente contro il marciapiede. Tolgo gli occhiali,
scendo e respiro.
Risalgo.
Avevo deciso di indossare di
nuovo il pigiama con gli orsetti che si inchiappettano, non so di preciso il perché.
Passarono quaranta minuti e
la porta di casa sua si aprì.
Era lei.
La vidi uscire e scendere i
pochi gradini che la portavano al cancellino. Io mi trovavo dall’altro lato
della strada. Scesi velocemente dalla macchina e mi diressi verso le piccole
strisce pedonali tra il suo marciapiede e i giardinetti. Era senso unico e
doveva per forza andare dritto per quei 15 metri. Appena accese i fari e partì,
io feci per attraversare facendomi trovare nel mezzo di strada esattamente
mentre arrivava.
Rallentò. Io mi fermai.
Abbagliò, io mi voltai.
Spense il motore, scese, la
guardai, sorrisi.
Aveva appena preso il caffè.
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